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Mamma, che stress!

In che modo lo stress entra in gioco nella maternità?

La maternità è sicuramente uno dei periodi che comporta maggiori cambiamenti nella vita di una donna, ma anche di una coppia. Essa, infatti, viene annoverata tra gli eventi di vita maggiormente stressanti, considerando che per stress non si intende necessariamente una situazione negativa ma un passaggio ad un nuovo stato di cose.

Per questo motivo provare un certo livello di stress durante la gravidanza è normale e non comporta conseguenze negative se la neomamma ha la possibilità di rallentare, prendersi cura di sé e prepararsi con calma al nuovo arrivo. 

Se, invece, la donna si trova a vivere una condizione di stress cronico, questo può avere importanti ripercussioni anche sull’andamento della gravidanza e sulla salute del bambino.

Nel mese di Settembre noi di eiréne, insieme all’ostetrica Lucrezia Torrini, affronteremo proprio questo argomento cercando di fornire dei pratici consigli a tutte coloro che si trovano ad affrontare questo delicato ma straordinario momento.

Quali sono gli effetti dello stress sulla gravidanza? 

Come abbiamo visto nel nostro articolo sullo stress cronico, vivere una condizione di stress perdurante comporta l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene ed una secrezione eccessiva e continua di cortisolo, l’ormone dello stress.

Questo ormone può attraversare la placenta e, dunque, alterare anche il funzionamento del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene del feto, che arriva a piena maturazione nelle ultime settimane della gravidanza (Rakers et al., 2017).

Sembra poi che una condizione di stress nella madre possa comportare un maggior rischio di parto pre-termine e un minor peso del piccolo alla nascita. Tuttavia, non è stata dimostrata una correlazione diretta tra questi fattori. L’ipotesi quindi potrebbe essere che vivere una situazione molto stressante, in maniera continuata, possa portare alla messa in atto di comportamenti nocivi per la gravidanza, quali uso di tabacco o alcolici.

Un dato interessante ha messo in luce come bambini esposti nelle prime settimane di gestazione ad alti livelli di cortisolo, presentassero un maggior volume dell’amigdala, quella zona del cervello deputata ad elaborare stimoli emotivi. Ciò ha fatto pensare ai ricercatori che questi bambini, in futuro, potrebbero incorrere maggiormente in disturbi dell’area affettiva, quali ansia e depressione.

In un altro articolo gli autori hanno riscontrato che vivere eventi stressanti durante la gestazione possa avere ripercussioni negative sullo sviluppo psico-motorio del bambino. Lo studio ha preso in esame più di 300 coppie mamma-bambino, in cui la madre aveva lavorato durante il periodo della gravidanza. I risultati hanno messo in luce come lo stress lavorativo della donna abbia avuto un impatto negativo sullo sviluppo psico-motorio del bambino, misurato tramite la Bayley Scales of Infant e l’indice di APGAR alla nascita (indice di vitalità e funzionalità del bambino appena nato), che risultava più basso nei figli di queste mamme.

Diversi fattori della quotidianità possono infatti innalzare lo stress a livelli eccessivi: lavoro fino al termine della gravidanza, gestione della vita privata, malessere gravidico fisiologico che “obbliga” a rallentare (esempio iperemesi, ovvero nausea e vomito), affaticamento e sensazione di stanchezza, preoccupazione per il nascituro e per il parto. Tutte queste condizioni, spesso anche sommate insieme, portano ad innalzare in modo importante i livelli di stress materno, stress a cui il feto è costantemente sottoposto.

Molti sono gli studi effettuati su mamme e neonati per comprendere gli effetti degli alti livelli di cortisolo sui bambini appena nati. Uno studio (Rabiepoor S. et al., 2019.) evidenzia come siano stati riscontrati alti livelli di cortisolo nel cordone ombelicale dei neonati che presentavano meconio (le feci del neonato) all’interno del liquido amniotico (la presenza di meconio indica sofferenza del bimbo). Dallo studio emerge anche come si siano riscontrati alti livelli di Leptina (ormone che agisce nella regolazione del bilancio delle riserve energetiche) nelle madri durante il travaglio di parto, in associazione a difficoltà respiratorie alla nascita, basso peso del neonato, minore circonferenza cranica, basso indice di Apgar e nascite pre-termine. 

Anche l’esperienza diretta dell’ostetrica Lucrezia Torrini conferma questi dati. La dott.ssa infatti afferma:

“Costantemente incontro donne che hanno paura del parto, nello specifico del dolore del parto, situazione che porta ad aumentare in modo importante i livelli di stress. Ciò che ripeto sempre alle future mamme è che è normale avere paura del dolore del parto, così come di ogni cosa di cui ancora non abbiamo fatto esperienza. Quello che facciamo insieme è aumentare la consapevolezza della mamma, attivando tutte le sue potenzialità e risorse, ricordando loro che l’informazione è la migliore arma per combattere lo stress in gravidanza.

Non di minor importanza, è considerare che alti livelli di stress e di cortisolo influiscono sulla stimolazione ormonale necessaria per l’avvio del travaglio e per il suo proseguimento. Motivo per cui è molto importante, soprattutto a termine della gravidanza, che la donna abbia con sé tutti gli strumenti necessari per poter gestire lo stress ed essere pronta ad accogliere l’evento nascita. Alti livelli di cortisolo e adrenalina sono in contrasto con la produzione di ossitocina e prostaglandine (ormoni che danno il via alle contrazioni). L’ossitocina, conosciuto anche come l’ormone dell’amore, è di fondamentale importanza anche durante la gravidanza, perché predispone la mamma a creare già un primo rapporto con il bambino in utero. Lo stress, con i suoi ormoni, è in contrasto con la produzione di ossitocina. Una mamma informata e consapevole di ciò che affronterà durante il parto sarà facilitata nella ricerca di metodi e strategie personali per ridurre i suoi livelli di stress e le situazioni che intorno a lei lo incrementano, e di conseguenza sarà in grado di concentrarsi sul suo bambino e sulla relazione con esso.

Lo stress, infatti, porta la madre ad essere costantemente sul piano razionale e questo entra in contrasto con ciò che invece serve per vivere a pieno e in salute la gravidanza e il parto. In merito a questo l’ostetrica afferma:

“Molte volte mi è capitato di riscontrare in mamme con bassi livelli di stress, in grande ascolto del proprio corpo e con una consapevolezza in sviluppo continuo verso la maternità, una maggior capacità nel comunicare con il bambino, percepire i cambiamenti positivi e negativi, nel caso si riscontrino, ed essere in grado anche di comprendere il momento quasi esatto in cui il travaglio avrà inizio.”

Molti sono gli studi che hanno evidenziato come in neonati con alti livelli di cortisolo, nati pretermine, sia stato importante il “pelle a pelle” con il genitore per riequilibrare in entrambi i livelli di cortisolo, grazie al rilascio di grandi dosi di ossitocina durante tale pratica. 

Spesso per aiutare i bambini ed i genitori a contenere lo stress, ma anche per aiutare i neonati ricoverati nelle terapie intensive a velocizzare la guarigione, viene utilizzata la pratica che prende il nome di Kangaroo Care: consiste nel portare il bambino attaccandolo al proprio petto, proprio come i canguri fanno con i loro cuccioli. Questa tecnica è molto importante soprattutto per i bimbi nati pre-termine e di basso peso, perché la vicinanza con il genitore agisce sulla riduzione degli ormoni dello stress, promuovendo nel bambino uno stato di serenità e tranquillità che a sua volta permette anche il potenziamento del sistema immunitario neonatale.

In seguito al periodo di pandemia causata dal Covid19, l’ostetrica ha riscontrato nei neonati diverse difficoltà ad attaccarsi al seno, durante l’allattamento. Molti dei bimbi visti nei primi giorni dopo la nascita presentavano agitazione durante l’avvicinamento al seno, spalancavano la bocca in cerca del seno, che molto spesso hanno già tra le labbra, muovendo la testina a destra e sinistra e presentavano un movimento che le mamme chiamano “del picchio”, perché danno delle vere e proprie beccate al seno.

La dott.ssa Torrini continua:

“L’esperienza con le donne viste e seguite durante la gravidanza, riscontrato anche nel confronto con le colleghe, mi ha portato a fare attenzione ad alcune situazioni che spesso tendono a presentarsi quando lo stress è particolarmente presente in gravidanza. Ciò che più comunemente ritroviamo sono quelle che chiamiamo le malposizioni fetali, ovvero quando i bambini in utero tendono ad assumere una posizione diversa da quella funzionale per il parto, ovvero la cefalica (testa in giù verso la vagina). Queste posizioni “non corrette”, come la podalica (testa sotto le costole), o la trasversa (in orizzontale rispetto alla mamma) impediscono al piccolo di attraversare il canale del parto nel modo migliore.
Inoltre capita di riscontrare, a termine di gravidanza, che le contrazioni tardino ad innescarsi e ad avviare il travaglio, proprio a causa degli alti livelli di cortisolo in circolo che come già detto ostacolano l’ossitocina. Altre volte, in presenza di uno stress cronico, può capitare che l’innesco delle contrazioni avvenga molto prima del termine di gravidanza, a causa di un eccesso di cortisolo e catecolamine nel corpo materno, che attraversando la placenta, danno inizio alle contrazioni e portano ad un parto prematuro. Se invece la futura mamma vive stress acuti alternati a fasi di benessere, la placenta utilizza la sua capacità di filtraggio per ostacolare le catecolamine e il cortisolo in eccesso, proteggendo in questo modo il feto.”

Cosa comporta lo stress nella relazione madre-bambino?

Le relazioni interpersonali sono fondamentali durante tutto il corso della nostra vita ed in particolar modo quella principale riguarda il primo legame affettivo del bambino con la propria madre.

La relazione madre-bambino è essenziale dal punto di vista evolutivo ed è inoltre necessaria all’individuo umano, perché consente di strutturare un pattern di relazione sociale che verrà poi adattato nelle fasi successive dello sviluppo. 

Colui che si è occupato della relazione madre-bambino e che rappresenta il padre fondatore della teoria dell’attaccamento è J. Bowlby (1969, 1973, 1980), secondo cui l’attaccamento è un comportamento innato nel bambino, che implica la ricerca di vicinanza all’oggetto di attaccamento (l’adulto che si prende cura di lui). Se tale ricerca va a buon fine il piccolo prova un senso di sicurezza e soddisfazione, ma se non è possibile ottenere questa vicinanza o se il legame viene interrotto, si produce uno stato di angoscia da separazione, che si manifesta con il pianto. 

Dunque, in momenti di paura e malessere, ogni neonato è spinto a ricercare il contatto con la madre per tranquillizzarsi. Se quest’ultima è disponibile ad accoglierlo, il bambino si formerà nella mente l’immagine dell’altro significativo come una base sicura, a cui accedere se sta male e da cui allontanarsi con tranquillità per iniziare ad esplorare il mondo. Questo getta le basi per uno schema relazionale sano, che permetterà all’individuo, nel corso della sua vita, di avere fiducia negli altri e di sviluppare relazioni serene.

Ma che succede se la mamma sta vivendo un momento difficile?

Se si trova in una condizione di stress cronico, con tutte le conseguenze che ne susseguono, per la mamma sarà più difficile entrare in sintonia con le richieste di vicinanza del bimbo. Quando si provano sentimenti di ansia o depressione, può diventare estremamente faticoso consolare il piccolo ogni volta che lo richiede, rispondergli con un sorriso quando cerca la vicinanza, o parlargli con un tono di voce accudente. L’espressione facciale della mamma in risposta ai tentativi di comunicazione dei bambini, anche molto piccoli, si è dimostrata fondamentale per modulare l’interazione tra i due e rimandare, o meno, un senso di sicurezza al piccolo. Tronick (1978), psicologo dello sviluppo americano, ha messo a punto il famoso esperimento della “still face” (volto immobile), con il quale ha dimostrato l’esistenza di una complessa interazione comunicativa tra mamma e figlio, già a 3-4 mesi di vita di quest’ultimo. L’esperimento prevede una prima fase di scambio comunicativo normale tra la madre e il piccolo, in cui si può notare l’alternanza tra i due, di vocalizzi, sorrisi e sguardi. Ad un certo punto, alla madre viene richiesto di immobilizzarsi, mantenendo un volto privo di espressione e non rispondendo più ai tentativi di contatto del bimbo. I piccoli mostrano subito chiari segnali di stress e dopo qualche tentativo di richiamare l’attenzione della mamma, già così piccoli, si “auto-regolano” per gestire questo disagio: evitano lo sguardo della madre, girano il viso, diventano anch’essi inespressivi, rivolgono l’attenzione a parti del loro corpo o ai vestitini. 

Se siete curiosi, potete vedere il video dell’esperimento qui.

Questo paradigma ha portato gli studiosi a concludere che quando, per esempio, una mamma soffre di depressione o ha la mente occupata da preoccupazioni e pensieri, può succedere spesso che i tentativi di contatto del bimbo non vadano a buon fine, non permettendogli di costruire quel senso di sicurezza che è la base per sviluppare la fiducia in sé e nel mondo. Ovviamente questo non significa che basta una sola volta in cui la madre non è disponibile a consolare il piccolo, per generare uno schema di attaccamento insicuro: ciò avviene quando le difficoltà di sintonizzazione tra i due sono il pattern più frequente e ripetuto nel corso di tutto lo sviluppo del bambino.

Per questo motivo è così importante che le mamme che soffrono non vengano lasciate sole, ma sentano il diritto, senza vergogna, di chiedere aiuto. 

Cosa può fare una mamma per gestire lo stress?

Le alternative per cercare di ridurre lo stress in gravidanza e anche nel post partum possono essere molteplici anche se il consiglio principale che sentiamo di suggerirvi vuole essere quello di imparare ad ascoltare i segnali del proprio corpo, per comprendere meglio ciò di cui si ha realmente bisogno.

Tra le attività che abbiamo pensato di suggerirvi, vi sono:

  • Attività fisica: yoga, ginnastica dolce, acquaticità e camminate sono solamente alcuni esempi del movimento che è possibile svolgere in gravidanza. E’ importante concedersi dello spazio per mantenersi in forma, cercando di alleviare soprattutto la pesantezza e il gonfiore che spesso in gravidanza si accumula sulle gambe.
  • Frequentare un corso di accompagnamento alla nascita: il confronto costante di emozioni e paure sia con l’ostetrica che con le altre future mamme aiuta a sentirsi meno sole nell’affrontare questo momento così importante.
  • Tecniche per un miglior riposo notturno: utilizzo di cuscini, sperimentare nuove posizioni nel dormire che aiutino a cercare maggior comodità.
  • Supporto psicoterapico: se lo stress è veramente alto, potrebbe essere utile rivolgersi ad un professionista della salute psicologica, che supporti la donna in questo delicato momento e la aiuti a verbalizzare le emozioni che sta provando.
  • Mindfulness: può essere molto utile considerare di frequentare un corso di mindfulness. Questa pratica meditativa, infatti, è improntata all’incremento della consapevolezza e della connessione con il proprio corpo. Inoltre, tra i suoi benefici indiretti vi è un aumento del rilassamento e del benessere mentale.

Bibliografia

Polanska K., Krol A., Jurewicz J., Chiarotti F., Calamandre G., Hanke W. (2017). “Maternal stress during pregnancy and neurodevelopmental outcomes of children during the first 2 years of life.” Pediatric Child Health; 2017, Vol.53 (3).

Rabiepoor S., Abedi M., Saboory E., Khalkhali H. R. “Stress during pregnancy affected neonatal outcomes and changed cortisol and leptin levels both in mother and newborns” – J Neonatal Perinatal Med, 2019.

Rakers F., Rupprecht S., Bergmeier C., Witte O., Schwab M.; “Transfer of maternal psychosocial stress to fetus”. Neuroscience and Biobehavioral Review; 2017; Vol.16.

Tronick Edward Ph. D., Als Heidelise Ph.D., Adamson Lauren Ph.D., Wise Susan B.A.T., Brazelton Berry M.D, (1978). “The Infant’s Response to Entrapment between Contradictory Messages in Face-to-Face Interaction.” Journal of the American Academy of Child Psychiatry; Volume 17, Issue 1, Winter 1978, Pages 1-13.

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